“Spirito, dicci…le forze oscure vogliono dividerci?” chiese l’operatore, seduto, al centro del salone.
Di fronte a sé, la guida spirituale, sdraiata, in fase di rilassamento profondo, che rispose a bassa voce “guerre, divisione, carestie…vogliono che l’essere umano sia diviso. Vogliono diffondere la paura fra di noi”.
Io e gli altri componenti dell’ecovillaggio in cui ho vissuto per più di un anno, seduti in cerchio, ascoltavamo in silenzio.
E mi chiedevo se tutto ciò fosse reale.
Se questa fosse veramente la realtà che mi ero immaginato, che desideravo.
Decisi, nel Giugno del 2020, nel bel mezzo della pandemia, di lasciare Berlino per trasferirmi nell’appennino tosco-emiliano, e vivere in un ecovillaggio.
Non li conoscevo.
Ne avevo sentito parlare, ma sembravano realtà troppo lontane e diverse dal luogo in cui mi trovavo.
Vita all’aria aperta, cibo sano, contatto con gli animali e con la natura.
Vivere in un contesto diverso dalla città è ancora possibile.
Un modo di vivere più vero.
Mi trovavo così in una realtà nella realtà.
Ma come un po’ tutte le cose nella vita, c’è l’altro lato della medaglia.
Il lato nascosto.
Chiamiamolo brutto.
Credenze bizzarre, riti particolari, visioni.
Ogni gruppo ha bisogno di regole, di leader, di una sua struttura interna, che non viene messa in discussione da nessuno, almeno all’apparenza.
O la si condivide, oppure si è fuori. Bianco, o nero.
Noi e loro.
E il ritorno alla realtà può trasformarsi in un brusco risveglio.
Questi sono gli aspetti positivi e negativi di un modello di vita alternativo: quello degli ecovillaggi.
Marzo 2020. Berlino.
Nell’aria un nemico invisibile si muoveva, giorno dopo giorno, di paese in paese, e non sembrava fermarsi.
L’arrivo del Coronavirus ci colpì all’improvviso, ricordandoci cosa conta davvero: una passeggiata all’aria aperta, gli abbracci e la vita, che a molti in quel periodo è stata negata per sempre.
Per tutti gli altri, la sensazione che un nuovo mondo, una nuova era stesse per iniziare, e che niente sarebbe più stato come prima.
Decisi di trasferirmi nell’appennino tosco-emiliano per fare un’esperienza in un ecovillaggio.
Non fui l’unico a prendere una decisione di quel tipo.
Secondo la RIVE (Rete Italiana Villaggi ecologici) la pandemia del 2020 è stata un punto di svolta riguardo alla crescita di queste realtà. Attualmente, gli ecovillaggi iscritti alla RIVE sono poco meno di 50. Ma il numero cresce se consideriamo tutti quelli che non hanno ancora deciso di unirsi a questa associazione.
Senza considerare che è quasi impossibile sapere quante persone ne facciano parte.
Luci ed ombre insomma.
Ma cos’è un ecovillaggio?
Sempre secondo la RIVE “un ecovillaggio è una realtà comunitaria nella quale cinque o più persone, non tutte appartenenti alla stessa cerchia familiare, decidono di vivere e costruire delle basi comuni per portare avanti un progetto di vita sostenibile, a livello ecologico, sociale, spirituale ed economico”.
Realtà surreali, che però stanno lanciando un segnale forte, seppure a volte con modi abbastanza discutibili.
Ci stanno dicendo in qualche modo che una parte della nostra società vuole fuggire dalle città.
C’è chi ha bisogno di stare in mezzo alla natura.
Chi ha la necessità di costruire rapporti umani più sani.
Chi lo fa per una questione economica o ambientale.
I motivi sono molteplici.
Ma la causa è forse una sola?
Che la società moderna per come la conosciamo sia verso una fase di declino?
Ho quindi deciso, a due anni di distanza dalla mia uscita dall’ecovillaggio, di visitarne altri, per comprenderli meglio. Ma prima di ciò, sono tornato in città, per ascoltare la pancia di chi resta, di chi resiste, o di chi, per mancanza di alternative, decide che la città va bene.
“Qui ci sono più servizi, gli ospedali e poi lavoro qui vicino, ci metto 5 minuti a venire in centro. Però per quanto riguarda la vivibilità non è che si sta andando nel senso giusto…ci sono piccole realtà criminali, ragazzini fra l’altro”.
Così mi dice Leonardo di Belluno, 30 anni. C’è chi invece ha deciso di trasferirsi da una grande città verso una più piccola.
“Io abito a Belluno ma sono scappata da Roma. La sentivo veramente stretta e poco vivibile. Quando ne esci capisci quanto tempo hai perso, quanta salute è stata prosciugata, quante amicizie sono andate perse…penso però che non sarei capace di vivere in una comunità autosufficiente. Mi incuriosisce e li stimo moltissimo, mi piace quello che fanno…li vedo però come l’estremo opposto della grande città. Lo vivrei come un’esperienza ma non ci imposterei la mia vita. Se dovessi però scegliere fra un ecovillaggio e una grande città sceglierei l’ecovillaggio. A Belluno ora non c’è il traffico di Roma, e ho riscoperto il tempo per i miei Hobby e per le amicizie”.
Federica, originaria di Roma, si è trasferita a Belluno da un paio d’anni, ha 30 anni e un bimbo di 3. Mi dice che la nascita di suo figlio è stato un fattore determinante per questo cambio di vita.
E forse, non è proprio questa la direzione che dovremmo seguire?
Decidere di cambiare per noi, ma soprattutto per chi ci segue?
Con queste riflessioni impresse nella mente, faccio visita a Gaia Terra, un ecovillaggio in Friuli-Venezia Giulia, situato fra Pordenone e Udine, dove incontro Riccardo, un residente che vive qui da 5 anni ormai.
“Il motto di Gaia Terra è ‘leggeri sul pianeta’. È una comunità resiliente verso l’autosufficienza. Non c’è un’identità spirituale dichiarata. Utilizziamo la pratica della gratitudine, ovvero prima di ogni pasto ci mettiamo in cerchio e ringraziamo qualcosa o qualcuno. Siamo in 7 residenti e una ventina di volontari, che aumentano d’estate”.
Mi spiega che non ci sono ancora famiglie con bimbi presenti e che manca ancora un legame con le persone e le città limitrofe Riccardo, cinquantenne, era stanco della vita di prima.
“Correvo, correvo ma non ero felice. Ho scelto di venire qui perché aveva un senso”.
Chi mi conferma la sua insofferenza verso la società odierna è anche Nicola, 45 anni che dopo aver vissuto a Gaia Terra, è venuto a trovarli.
“Una volta uscito da qui la cosa che mi mancava di più erano gli abbracci della gente. Fuori, nel mondo reale c’è sempre più distanza emotiva”. Mi spiega poi in dettaglio la struttura, ovvero “un’ex fabbrica sopravvissuta ad un incendio. Qui c’è riscaldamento a pavimento. Non si usa gas, né rifiuti. Si usa solo la corrente. L’acqua viene presa da una sorgente naturale. Con il cibo siamo autosufficienti: semi di girasole, soia, sorgo. Ognuno qui è obbligato a lavorare 5 ore al giorno, poi il resto te lo puoi gestire a piacimento. Chi arriva ha un periodo di prova di una settimana dove fai tutto, ti sperimenti. Poi la persona lascia la comunità, e se la prova è andata bene (ovvero se la persona è piaciuta ai componenti del gruppo) può ritornare. Si paga 300 euro al mese come affitto. Non si può usare la carta igienica, per una questione di spreco, ma soprattutto perché va ad intasare l’impianto di scarico, dove c’è un filtro con buchi piccolissimi da 1 millimetro. L’impianto è stato fatto da una ditta specializzata ed è costato 80.000 euro”.
Continuando la conversazione con Nicola, ci racconta anche alcuni aneddoti, che sono difficilmente visibili agli occhi di chi si affaccia solamente per qualche ora in questa dimensione.
“Sinceramente, qui non ci torno più, perché ho capito come funziona. Sono sempre ‘quelli’ che decidono. Quelli là più in alto. I residenti sono in 7 al momento. Se c’è un problema fra un residente e un volontario il residente avrà sempre la meglio. Un residente andava sempre a farsi la doccia nel bagno delle donne. Una volta una ragazza si è spaventata. Lui diceva che lui poteva e io no, perché io ero un volontario”.
Prima di andarmene ho l’occasione di scambiare due chiacchiere con la fondatrice, Deborah Sbaiz, che ha ereditato un ingente somma di denaro dopo la vendita della famosa Boutique Sbaiz da parte della famiglia.
“Ci sosteniamo con le donazioni, con gli eventi, rete di scambi. Io sono la proprietaria, ma la mia idea è quella di darla ad un gruppo di persone, ad un fondo…dobbiamo vedere. Utilizziamo la guida CLIPS ( https://clips.gen-europe.org/wp-content/uploads/2017/10/CLIPS-Framedoc-ITA.pdf ) un metodo che funziona, soprattutto perché molti ecovillaggi nascono e muoiono subito a causa dei conflitti. Qui abbiamo una situazione di rango, ovvero dei privilegi per anzianità o ruoli. Chi è residente ha un peso differente, ovviamente. Le decisioni vengono prese attraverso il consenso, ovvero ti do l’assenso, mi affido, o propongo qualcos’altro. Noi residenti prendiamo le decisioni sulla struttura, visione politica e amministrativa. Gli incontri che riguardano la vita di comunità vengono realizzati con tutti. Li chiamiamo i cerchi … Io ho detto imposto fin dall’inizio la cucina vegana. A casa propria una persona può fare ciò che vuole, ma in comunità si mangia vegano. Qui al momento non abbiamo animali, perché non c’è nessuno che se ne prende cura”.
Le chiedo perché Gaia terra?
“Perché ha senso” mi dice.
“Ho visto questo posto e ho pensato all’idea di creare un ecovillaggio all’interno di una fabbrica. Io ho un ego smisurato e quindi è anche un vanto. Un ecovillaggio in una fabbrica per salvare il mondo”.
Termino la visita a Gaia Terra chiedendomi se il loro sia più un vanto oppure un reale tentativo di migliorare il mondo.
O forse entrambe le cose. Ma con la reale consapevolezza che la creazione di un qualsiasi gruppo di intenti abbia la necessità di un leader, o di ideali comuni.
Aspetti che non trovo nella mia visita successiva, presso il villaggio di Ciricea, a pochi chilometri da Pistoia, dove mi accoglie Eugenio, un signore fiorentino di 70 anni che ci abita dal 2016.
“Noi siamo in 12. Ma il numero varia sempre. Questo fine settimana ci sarà un open day, o meglio dire un closing day visto che ci sfrattano ed entro marzo si deve andare via”.
Federica, una ragazza del Lago Maggiore che vive a Ciricea da 2 anni e mezzo mi spiega che secondo lei “è un po’ una conseguenza di molte cose che ci sono o non ci sono state. Negli ultimi anni c’è stata una trasformazione, una direzione verso un’unità di gruppo, attraverso anche la figura di un facilitatore. Noi facciamo ogni lunedì un cerchio decisionale attraverso il metodo del consenso e della sociocrazia” .
Secondo la guida Clips “La Sociocrazia” distribuisce le responsabilità all’interno del gruppo in modo equivalente nei diversi ambiti. In ogni cerchio le decisioni vengono prese con l’assenso. I cerchi sono collegati tra di loro con un doppio legame: una persona rappresenta il cerchio grande nel gruppo di lavoro e una persona, viceversa, rappresenta la voce del gruppo di lavoro nel cerchio grande. I differenti ruoli vengono assegnati attraverso “elezioni senza candidati”, in modo che i ruoli siano ricoperti dalle persone più appropriate in quel momento e a quello scopo.
“Siamo riusciti a creare un po’ una cultura di gruppo. Quando sono arrivata non c’era. Con lo sfratto, molti decideranno di andarsene. Forse il tempo per creare un senso di gruppo non è stato abbastanza. Manca una vera e propria direzione”.
La versione di Federica viene confermata da Cristiano, un ragazzo di 37 anni, di Milano, che resterà nel progetto. “
Qui secondo me è un luogo creativo, forse un po’ caotico e sbandato, ma con un che di magico. È un crocevia di persone. Un luogo che connette. Qui ho l’opportunità di andare in profondità con molti argomenti, che prima non potevo nemmeno nominare. Argomenti personali. Qui ho anche la libertà di esprimere la mia creatività. Arrivai qua, nel periodo del covid, dopo aver vissuto i primi mesi di restrizioni, e trovai un ambiente in festa, gente che si abbracciava, un fuoco acceso e un teatro cabaret e l’idea di portare avanti un luogo autosufficiente. Io ora produco oli essenziali e aceti balsamici, guadagno quello che mi serve e ho molto tempo libero”.
Girando fra i vari ecovillaggi, la mia idea che ci fosse una netta divisione fra il mondo reale e quello di queste piccole realtà sembrava sempre più evidente.
Un “Noi e Loro” che stride un po’ con la creazione di un mondo migliore.
Mi tornano in mente le parole di Silvana, 61 anni, insegnante delle scuole elementari che vive a Belluno.
“Una cosa però che mi sento di dire è che tutte queste piccole realtà alternative ci vogliono dire che c’è bisogno di alternative, di un cambiamento. C’è però una riflessione da fare; siamo tutti collegati. L’isolamento totale dalla società però non penso sia la soluzione”.
Chi sembra darci una soluzione a questa bipolarizzazione sono le Case Bacò, immerse nel verde delle colline di Valdobbiadene, a Crespano del Grappa in provincia di Treviso, dove 3 famiglie con un lungo passato fatto di condivisione durante le missioni umanitarie in Africa e Sudamerica, hanno deciso di mettere le radici, e di non isolarsi. Roberto 55 anni della zona, libero professionista, mi dice che “invece di defilarsi come fanno molti, noi siamo a contatto con la comunità del posto. Soprattutto dopo il Covid, molti no-vax si sono proprio isolati e hanno preso la loro strada uscendo dalla società”.
Anna, 41 anni di Padova lo conferma “Io non mi sento né fuori né dentro.
Non vogliamo nemmeno questa divisione. Siamo molto inseriti nella comunità locale e non abbiamo fatto la scelta di uscire dalla società. Siamo un po’ un ponte”.
Case Bacò è un’idea nata da persone semplici, che si sono scelte, per dare un esempio di come si possa allo stesso modo restare nella società e dare un messaggio di cambiamento.
Continua Anna.
“Siamo 3 famiglie. 6 adulti, 5 bambini e una ragazza adolescente. Ci conosciamo da tempo e abbiamo deciso di unire le forze per varie ragioni. Le due motivazioni fondamentali sono state il tema delle relazioni e il tema ecologico. Volevamo unire le forze di più famiglie per quanto riguarda l’orto, fare il pane, ridurre i consumi e i costi. Pensavamo che l’unione delle famiglie potesse essere un punto di forza. Qui ci siamo scelti e c’è un enorme lavoro sulle relazioni. Ci sono modalità per gestire i conflitti e prendere le decisioni. Noi stiamo imparando ad utilizzare il metodo del consenso (guida Clips). Ci può essere qualcuno in disaccordo ma che venga comunque integrato nella decisione. L’obiettivo è di prendere decisioni dove nessuno venga lasciato per strada con un malessere che poi vada a nuocere al gruppo”.
Il gruppo è una costante che ho trovato in ogni ecovillaggio.
C’è chi ha creato un gruppo unendo le forze di 3 famiglie, chi invece ha investito denaro singolarmente ricoprendo la figura del leader , e chi ha trascurato l’importanza della cura del gruppo e rischia di chiudere.
E non è forse questo ciò che le nostre città, per come le conosciamo, stanno attraversando?
Non rischiamo di trascurare i rapporti e di conseguenza i gruppi, per poi un giorno pentirci di non aver fatto qualcosa? Forse sono queste le domande che gli ecovillaggi ci stanno fornendo, e alle quali per ora non ci sono risposte.
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