Trieste.
Sullo sfondo il mare.
Oggi, 30 Ottobre 2023, è calmo.
Là in mezzo, fermo da marzo 2022, la barca a vela più lungo al mondo.
Lo yacht dell’oligarca russo Andrej Melnichenko, il Sailing Yacht A, bloccato dalla Guardia di Finanza nel marzo dello scorso anno in esecuzione delle sanzioni decise dall’Unione Europea contro gli oligarchi russi.
Un post-it grigio in mezzo al mare con su scritto “guerra”.
Ce lo ricorda ogni giorno, da ormai più di un anno.
Nelle scorse settimane si è aggiunto il conflitto tra Israele e Palestina.
Oltre allo yacht, ogni giorno passano navi mercantili e crociere, simbolo di un’era, basata sempre di più sul consumo di beni, di piaceri, di luoghi, di persone, di vite.
Nonostante la storia si ripeta, nonostante le continue manifestazioni a favore della pace, l’essere umano sembra proprio non comprendere.
C’è un modo alternativo alla guerra per la risoluzione dei conflitti?
Ma soprattutto, alla gente, preoccupano le guerre tra Russia e Ucraina e tra Israele e Palestina?
Angel, un ragazzo di 24 anni venezuelano, a Trieste ormai da 4 anni dice che “la guerra è necessaria a volte. Se domani mi dicono di andare a combattere per dei bambini, sono il primo che va a sparare per difenderli. Ma per queste ragioni? Per il petrolio oppure per interessi strategici e commerciali? No. Per questo non è necessaria la guerra”.
Gli chiedo se ha paura.
Mi dice che un po’ ne ha.
“Ma io vengo da un paese dove c’è molta violenza e corruzione. Dove ti picchiano per strada. La polizia nazionale mi è entrata in casa, mi ha legato, picchiato e torturato minacciandomi di tagliarmi le dita, chiedendo soldi per il mio riscatto”.
Sembra parlarne come se fosse una cosa di tutti i giorni. Come se non fosse stato realmente uno shock. Forse ci si abitua a tutto. Anche a questo tipo di situazioni.
Continuando a camminare incontro molta resistenza nel voler affrontare un discorso del genere.
Forse fa veramente paura.
Ora che le guerre le abbiamo li, dietro l’angolo.
Gente che muove la mano guardando altrove, gente che accelera.
Un signore mi dice chiaramente che non è la giornata giusta.
Forse la gente non vuole proprio sentirla quella domanda.
Così scomoda.
Così diretta.
Una domanda che forse nessuna di noi vorrebbe sentirsi fare, perché “forse la paura ce l’abbiamo tutti quanti” dice Susanna, una signora di origini slovacche, ma che ormai vive da qualche anno in Italia.
“Penso che la paura sia una cosa normale. Ora devo andare al lavoro, salve”.
Scappa.
Chissà se veramente le piace il lavoro che fa.
Dopo qualche metro incontro una coppia di tedeschi che mi rispondono con due frasi.
“Questa sì che è una domanda”.
Qualche secondo di attesa.
“Ci fa allarmare. Grazie”.
Li saluto e continuo la mia camminata.
Scappano.
Scappano tutti da quella domanda.
Forse è proprio per questo che continuiamo ad assistere a certe atrocità?
Perché invece di assumerci le nostre responsabilità scappiamo?
È appena scappata anche Cecile, una signora tedesca, che viveva da più di 30 anni a Vienna.
“Sono scappata da Vienna perché c’è un alto pericolo di terrorismo, e sono venuta qui a Trieste.”
Le chiedo se ha paura.
“Io sono pacifista, in ogni fibra del mio corpo. Penso che ci potrebbe essere una solazione diplomatica, ma l’essere umano preferisce ancora i muscoli alla testa.
C’è una carenza nel nostro sistema scolastico, nell’educazione, e questo rende la gente più stupida”.
“Ma c’è un’alternativa secondo lei?”
“Bisogna cercare un compromesso, ed essere pronti a fare un passo indietro. Entrambe le parti.”
“Sono d’accordo, ma una delle parti deve fare il primo passo”.
“Esatto. La parte che vuole la pace. Chiaro che ho un po’ di paura. Il terrore e la paura iniziano nella mente dell’essere umano…ma uccidere? Prima abbiamo avuto paura del comunismo, della guerra fredda. Oggi ci viene sbattuto in faccia tutto subito. In un secondo riesci a vedere su uno schermo ciò che succede veramente nei luoghi colpiti dalla guerra. Prima era tutto diverso. Si aveva il tempo di metabolizzare. Gli inviati di guerra andavano sul luogo, filmavano, fotografavano e scrivevano. Oggi è tutto più diretto. E la paura ce l’abbiamo a portata di mano. Alla TV. Apri il cellulare e hai video di guerra. Io ho un figlio, nato in Germania, ma poi cresciuto in Austria. Gli ho fatto scegliere la nazionalità tedesca, così in caso di guerra non è obbligato ad andarci. La paura c’è, ma non mi lascio influenzare. Non voglio dire che non ne abbia. Ma paura della guerra o altri tipi di paura che vengono assorbite dai propri genitori o dall’ambiente in cui si vive, quelle no. La vita è corta, e si vive una volta sola. Ma non mi piego di fronte alla paura dei terroristi. Significherebbe dargliela vinta. A loro, ai produttori di armi, alle lobby. Tutte le nazioni che producono armi sono direttamente o indirettamente coinvolte in una guerra. Se solo si insegnasse la meditazione nelle scuole ai bambini non ci sarebbero guerre. Ma non vogliono… Quello che vorrei dire ai giovani di oggi è di non lasciarsi influenzare dalla paura. La vita è bella. Perché dobbiamo ucciderci l’uno con l’altro? Perché un genitore dovrebbe perdere i propri figli? Per qualche interesse economico in ballo? La guerra fa solo danni. Mio marito viene dalla Persia. Io collaboro con un siriano ad un progetto che aiuta i rifugiati. Penso possa bastare”.
“Grazie mille Celine. Buona vita allora!”
“Grazie a te Cristian. Buon pomeriggio e buona vita!”
Quest’ultima conversazione mi ha fatto comprendere che forse, le risposte migliori ce le danno quelli che hanno vissuto direttamente la guerra. Mi torna in mente Anatolij. Un ex collega di lavoro ucraino, ma che abita in Italia da più di 10 anni. Prima Napoli. Poi le Dolomiti, dove ci siamo conosciuti. Era il dicembre del 2022, e la guerra tra Russia e Ucraina era iniziata da un po’ di mesi.
“Cosa ne pensi della situazione attuale?” gli chiesi.
“Io sono ucraino. Mia moglie è Russa. Mia figlia è metà ucraina e metà russa. A chi devo sparare io?” mi disse in un italiano un po’ zoppicante.
Capivo cosa intendesse.
O cosa volesse dirmi.
Perché sparare ad un fratello? A un essere umano? Solo perché siamo di nazionalità diversa?
Quella domanda mi è rimasta dentro.
“A chi devo sparare?”.
È questa l’unica soluzione possibile ai conflitti?
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