Nella cultura messicana . . . in punta di piedi

Parlare con la gente del posto è vita in movimento.
É entrare nella loro cultura.
A Cancun, girovagando per la zona del “Mercado 28”, incontro Landi, una signora che ormai vive qui da più di 20 anni, ma che è originaria di Merida.
Entrambe le città si trovano nella penisola dello Yucatan, ma in due stati differenti.
Merida è la capitale dello stato dello Yucatan, mentre Cancun si trova nello Stato di Quintana Roo.
Sono il simbolo di due mondi che si stanno sempre più separando.
Le ideologie dello scorso secolo e le loro divisioni stanno lasciando sempre più il posto ad una nuova netta separazione. Ricchezza e povertà.
Turismo di massa e autenticità.
A Cancun, come a Playa del Carmen, ormai invase dai turisti, dai Resort in stile “gringo”, fino alla “quinta avenida” che molto ricorda una qualsiasi zona turistica balneare in giro per il mondo, forse le uniche cose autentiche sono le persone e i loro ricordi.
Persone che hanno un passato, un presente e un futuro.
Landi ha 45 anni, capelli neri raccolti, bassa, robusta, un collo assente ma compensato dal sorriso che si espande ancora di più quando mi racconta di cos’è per lei la cultura messicana.
“Gli abiti, i colori, il cibo e le tradizioni. Noi messicani siamo gente molto credente”.

La stessa cosa l’ho riscontrata la sera stessa, al locale “La Parrilla”.
Inizio a parlare con Marco ed Erik, anzi “Erik di Jesus”, dice correggendosi mentre interrompe la preparazione di una tequila.
Ha 33 anni, proprio come “Jesus”, robusto con i cappelli neri gelatinati.
La tradizione cattolica è molto presente e radicata in questo paese.
Lungo le strade è cosa abbastanza normale trovare anche negozi con articoli che riportino alla religione cristiana. Cancun, però, immersa ormai nel turismo dilagante, nonostante presenti ancora caratteristiche proprie della cultura messicana, ne sta un po’ perdendo l’identità.
Me lo conferma anche Marco, che mi dice di andare a Valladolid, e di provare la “Cochinita e il Rejeno Negro”, due specialità della cucina yucateca e più precisamente della cultura Maya.
Marco, 44 anni, capelli neri, corti e occhi orientali, tipici della popolazione indigena di questi luoghi, è tra i pochi che parla ancora la loro lingua, la lingua “de los indigenos” come ama ripetere mostrando il suo sorriso che si incastra perfettamente nella pelle olivastra.
La gente mi parla di cibo e di tradizioni.
Sono tutti molto solari e accoglienti con “los Extranjeros” .
Come Memito Mey, la mascotte de “La Parrilla”.
Un signore sulla cinquantina, basso, sorridente e pieno di energia, che riesce a portare fino a dieci bicchieri posti su più livelli, appoggiati in testa.“10 anni di esperienza” mi dice, e sorridendo mi mostra il cellulare con la foto di un cane con un bastone in bocca, mentre sorregge due bicchieri ed uno in testa, e dice “el mi perro dos” (e il mio cane due).
Tutti scoppiamo a ridere.
Esco ad osservare il cielo.
Quella sera, la luna là sopra, si prendeva tutte le attenzioni.

A Playa del Carmen la situazione è pressoché la stessa.
I prezzi sono incredibilmente alti per la media messicana ed è per questo che in molti lasciano le loro città di origine in cerca di una situazione migliore.
Un fenomeno che ormai si può trovare ovunque nel mondo.
Com’è accaduto a Paula, una ragazza di venticinque anni, di Tuxtla Gutierrez, nel Chiapas, da due mesi a Playa del Carmen. Paula ha una bimba di otto anni, è laureata in medicina, ma non riesce a trovare lavoro.
“E anche se lo trovo ti pagano pochissimo. Per guadagnare di più dovrei iniziare a lavorare come privato e specializzarmi. Intanto faccio la barista”. Mi parla del luogo da dove viene, che descrive come “molto pericoloso. Se ti trovi nel posto sbagliato ti possono assaltare, rapinare, o addirittura uccidere”.
Una violenza dilagante in un paese che vivi di contrasti.
Un paese e una cultura così viva da celebrare e festeggiare “los dias de los muertos” (i giorni dei morti).
In quei giorni, a cavallo fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre “celebriamo la gente, i nostri cari che non sono più con noi, ma festeggiamo come se fossero ancora qui” dice Paula che mi ribadisce come un fattore fondamentale della cultura messicana siano le tradizioni e la fede.
Gente con una storia alle spalle, una realtà nella fede e un futuro negli occhi.

Emozioni, speranze e ricordi.
Ricordi come quelli di Jorge, proprietario e cuoco della “Taqueria El Jarocho”, nella Calle norte nel Centro di Playa del Carmen. Una “Taqueria” di strada, coperta da un telo di plastica nero, sorretto da alcuni pali di legno e legato da dei fili. Fili invisibili sono i ricordi di Jorge, di Veracruz, ormai da undici anni a Playa del Carmen.
L’ennesimo che se ne va, in cerca di altro.
“Arrivai qui il giorno 12 di Dicembre, giorno della vergine di Guadalupe” mi dice Jorge, come a voler rimarcare l’importanza di quel giorno.
“Lasciai una madre, una suocera, un fratello e una sorella. Fu un giorno molto triste” dice, mentre osserva i suoi aiutanti. Jorge dirige e cucina questo piccolo ristorante a cielo aperto con l’aiuto della moglie Cristina, e del figlio Jafet di 22 anni. Un locale spartano, con seggiolini in plastica colorati, una piastra, vari tipi di carne, tacos, burritos, tortas, e salse a non finire. Un posto sicuramente non chic, non di marketing, che non brilla come quei locali nella Quinta Avenida che tanto luccicano all’esterno, per lasciarti dopo il solo ricordo di una pancia piena.
Da Jorge si mangia bene, ma ciò che ti resta è anche un’emozione, un ricordo.
Puoi stare lì seduto anche per ore a parlare, mentre Cristina fila a mano “el Queso de Oaxaca” (formaggio di Oaxaca) e te ne allunga un pezzo per assaggiarlo.
Mentre Jorge ti chiede “quere Cebolla? Hoy no besos” (vuoi cipolla? Oggi niente baci).
Puoi scorgere i loro sguardi, i profumi, e toccarne le emozioni.
Una connessione che non è quella finta degli apparecchi elettrici.
É altro.
Che se usato nel modo giusto ti offre l’opportunità di essere l’ospite più gradito in casa loro.
Un ospite a cui regalare un pezzo di vita.
In un paese nuovo, da visitare in punta di piedi.

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